«Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno azero nella polveriera del Caucaso
Daniele Pepino
edizioni Tabor, Valsusa 2021, 36 pagine, 3.00 euro
Sei settimane di guerra. Centinaia di militari, anche volontari, e decine di civili uccisi. Un popolo delle montagne nuovamente costretto dentro uno Stato nemico. Una storia di resistenza all’assimilazione, al genocidio, e ora al nuovo disordine mondiale e alla volontà delle potenze regionali di aprire nuove rotte commerciali nel Caucaso post sovietico. Ancora razionalità statali e appetiti imperiali che ridisegnano mappe, costringono o cancellano vite. Una guerra antica e moderna; che viene da lontano con ambizioni nuove; che usa massicciamente i droni ma che la tecnologia non rende più pulita, anzi! Una guerra contemporanea, insomma, che ha messo al tavolo dei vincitori, nel novembre scorso, innanzitutto Mosca e Ankara, poi Baku. La Russia, senza aver quasi combattuto, conferma e rafforza il proprio ruolo egemonico nell’area; la Turchia, fedele alla sua vocazione “universale e visionaria”, ottiene quella continuità territoriale con l’Azerbaijan verso “un nuovo moderno grande Turkestan” dal Mediterraneo allo Xinjang cinese. Un libello che è un avviso ai naviganti su quanto è accaduto e potrebbe ancora uscire dal caleidoscopio dei nazionalismi, ma anche sugli scenari inediti che apre il declino dell’“Occidente” nel Caucaso.
In apertura, una dedica che è anche una dichiarazione di intenti: “a Monte Melkonian”, il comandante partigiano le cui gesta innamorarono la diaspora armena fino ai primi anni ’90, quando Monte morì combattendo proprio per il Nagorno Karabakh. Difficile infatti parlare di Armenia e Turchia senza risalire nel tempo, perlomeno all’epoca del Medz Yeghern (“Il grande Male”), gli anni 1914-16 in cui tra marce forzate, campi, fucilazioni, persero la vita almeno 1,5 milioni di armeni. Un passato che incombe come una minaccia tutt’altro che “passata”, a maggior ragione visto il mancato riconoscimento di tale genocidio da parte di una Turchia sempre più arroccata ai miti fondativi della propria politica neo-imperiale.
Maurizio Mura